Come accelereranno gli acceleratori (italiani)?
Qual è il futuro degli acceleratori, dei pre-acceleratori, degli spazi di coworking, degli incubatori e degli altri luoghi dell’innovazione, e in particolare di quelli Made in Italy? Ne abbiamo parlato ad H-Farm lo scorso giugno in occasione del terzo summit degli acceleratori EAS (European Accelerator Summit) organizzato dal progetto ATALANTA con fondi della Commissione Europea.
L’evento era strutturato in una decina di tavoli di brainstorming, cioè di discussione creativa, su quattro temi introdotti da altrettanti relatori: dai nuovi modelli di business, alle opportunità di espansione internazionale. Al mio tavolo, oltre al sottoscritto, c’erano professionisti di H-Farm, Wayra Germania, ABC Slovenia, StartupYard di Praga, un coordinatore del network globale di acceleratori GAN, e un rappresentante di un’agenzia portoghese per l’innovazione.
Era una bella collezione di punti di osservazione molto diversi, sia sotto il profilo geografico sia sotto quello della tipologia di organizzazione.
Al termine della discussione, i partecipanti di ogni tavolo illustravano agli altri i risultati del lavoro, e infine tutti i contributi venivano raccolti dal moderatore, Timothy O’Connell di H-Farm. Gli atti ufficiali del simposio verranno rielaborati e pubblicati dagli organizzatori, qui intendo solo condividere con voi ciò che si è discusso al mio tavolo e qualche mia riflessione sulla situazione italiana.
I futuri possibili degli acceleratori secondo i colleghi europei comprendono (almeno) questi scenari:
- Integrazione a monte della catena di valore: acceleratori che aprono spazi di coworking
- Integrazione a valle della catena di valore: acceleratori che aprono fondi di investimento
- Espansione in aree al di fuori dell’attuale catena di valore: open innovation verso grandi imprese imprese
- Altra espansione: formazione para-scolastica e para-universitaria
Nessuno di questi scenari mi stupisce. Di esempi concreti per ciascuna categoria ne esistono già, almeno in Italia: tutti i più noti acceleratori italiani sono coinvolti in una o più di queste evoluzioni.
LVenture a Roma, che è il fondo dietro all’acceleratore LUISS Enlabs, ha guadagnato sempre più spazi per ospitare startup ed eventi, fino all’ultima espansione degli uffici in Stazione Termini a 5000mq. E ha annunciato un ulteriore aumento di capitale di 5m di euro da raccogliere sul mercato. A quanto mi risulta, almeno in parte l’allargamento è volto a creare laboratori di open innovation con le grandi imprese.
Digital Magics a Milano, partito come incubatore con una logica di creare una sorta di distretto del digitale, si è quotata in borsa nel luglio del 2013 e sta espandendo il suo mercato corporate da una parte, e ha acquisito nel 2014 una quota nella rete di coworking Talent Garden, la quale a sua volta ha iniziato da circa due anni un’intensa attività di formazione con corsi a livello master (non ancora riconosciuti) nel design e nella programmazione.
H-Farm vicino a Venezia, ultima a quotarsi in borsa alla fine del 2015, sta seguendo gli stessi sentieri: rafforzamento delle attività professionali e consulenziali verso le imprese meno digitali, importanti investimenti immobiliari per accrescere l’ecosistema di talenti e startup residente nella campagna di Roncade, incremento dell’offerta formativa della Digital Accademia con nuovi, ambiziosi programmi.
Oltre ai quattro scenari elencati sopra, ce ne sono altri che gli acceleratori nostrani non sembrano ancora pronti ad affrontare.
Il primo è l’espansione territoriale a nuove geografie (Europa, ma anche Asia e Africa): a parte alcuni uffici commerciali per facilitare la crescita internazionale delle proprie startup, gli acceleratori italiani non stanno ancora allargando la propria impronta di dealflow verso l’estero. Il pioniere potrebbe essere forse Digital Magics grazie alla partnership con Talent Garden, che ha un piano di espansione aggressivo a 50 spazi di coworking.
Un secondo scenario è quello della cosiddetta startup factory o startup studio, ovvero di un laboratorio di startup on-demand fatte su misura per opportunità di business che vengono suggerite da partner industriali oppure da casi di successo internazionali che ancora non sono presenti in Italia. Se ne è parlato tanto negli anni scorsi, in tutti gli acceleratori sopra nominati e oltre. Qualche caso c’è stato, ma il modello non ha preso piede in modo prevalente e i motivi non mi sono noti (forse scarsità di domanda?). Mi sembra che prevalga ancora il modello della call di idee, anche con la funzione di attirare i talenti imprenditoriali, oppure delle hackathon di uno o due giorni intorno a bisogni di innovazione delle imprese tradizionali. I casi più simili a piccoli Rocket Internet in Italia sono forse alcuni system integrators o web agencies ai margini del mondo dell’incubazione (ne ho conosciuto di recente un paio di esempi, a Vicenza e a Milano).
Il terzo scenario è quello di virtualizzare tutti i servizi, dall’accelerazione alla formazione, per contenere i costi di gestione e raggiungere un pubblico più vasto. Il trend nazionale che ho delineato sopra mi sembra, all’opposto, quello di incrementare gli investimenti immobiliari. Non conosco altrettanti investimenti nel settore dell’e-learning o del supporto alle startup da remoto. Certo, nella mentorship a distanza si potrebbe perdere la dimensione di rapporto umano che è utile a valutare in modo approfondito il rischio dell’investimento sul fattore team (si perde, in altre parole, l’occasione di fare quella che amo chiamare la “lunga due diligence” durante il periodo di accelerazione). Tuttavia si potrebbe scalare più rapidamente e facilitare l’accesso all’accelerazione di impresa anche per le frange più remote del nostro ecosistema nazionale.
Il quarto scenario è quello che mi sembra stia perseguendo Techstars, e all’interno del quale credo di poter inquadrare l’acquisizione di Startup Weekend fatta nel 2015: è uno scenario dove un acceleratore diventa un centro di accumulo di una base-dati, su startup e talenti, da rivendere a chi ne ha bisogno. Ad esempio: grandi aziende alla ricerca di personale creativo e qualificato, enti governativi e statistici che compilano rapporti sull’imprenditoria, investitori di rischio che tengono sotto controllo le evoluzioni dell’innovazione, e anche le agenzie di consulenza che compilano ricerche per tutti i precedenti. Questo sarebbe un modello lucroso, forse, nel medio-lungo periodo, ma richiede un’ampia espansione territoriale come passaggio necessario per essere attuato. È probabile che ogni singolo acceleratore stia già svolgendo un ruolo di questo tipo nel proprio network, ma sembra che manchi l’interscambio di informazione tra gli acceleratori per agire su questa dimensione a livello nazionale.
In conclusione, questi ultimi quattro scenari che implicano l’espansione della raccolta (del dealflow) mi appaiono, almeno per il momento, meno popolari tra gli acceleratori e gli incubatori italiani. Quali ne sono le ragioni? Le mie ipotesi, non verificate, includono: mancanza di capitali; lo stato dell’ecosistema italiano dell’innovazione, che richiede attenzione (e produce opportunità non sfruttate) a casa nostra; la decisione di non assottigliare il brand attraverso un’espansione internazionale (che potrebbe diluire le energie invece ora a presidio del network nazionale); oppure un generale fallimento del modello di investimento early stage in Europa, che non incoraggia ad allargare il bacino di raccolta (dealflow) in quel segmento verso i nostri vicini.
Chiediamolo a loro: signori acceleratori italiani, che cosa aspettate ad espandervi oltralpe?